Dopo un anno di racconti, curiosità e ricette sui prodotti del nostro territorio in compagnia della Strada della Romagna, inizia oggi un viaggio alla scoperta dei vini locali. La storia del vino in Romagna ha radici antichissime, anche se la vocazione a una produzione di alta qualità è maturata in questa terra solo in un’epoca più recente. Il motivo per cui la Romagna per lungo tempo non ha avuto grandi cru e si è caratterizzata soprattutto come area vitivinicola improntata alla quantità più che alla qualità è di natura storico-ambientale. In primo luogo i vitigni provenienti dal Medioriente furono portati dai Greci nelle colonie del Sud Italia: le principali aree di produzione di vini di eccellenza in epoca romana si presentavano distribuite in quest’areale. I cru della Romagna, a quei tempi, si limitavano ai vini di Faenza e di Rimini e i georgici latini dicevano meraviglie della viticoltura romagnola per la produttività delle vigne.
A Faenza, scrive il letterato e agronomo romano Marco Terenzio Varrone nel primo secolo a.C., la produzione di vino era di 15 cullei/jugero, vale a dire 312 ettolitri per ettaro, circa il doppio di quella considerata una buona resa. Una resa così alta dei vigneti a quei tempi non era vista in modo negativo come succede oggi da chi cerca produzioni di qualità, perché il vino serviva in grande quantità a sanitizzare le acque malsane che si trovavano nella zona del delta del Po, ancora in gran parte paludosa. La base di viticoltura impostata da Etruschi e Villanoviani venne arricchita notevolmente dalle varietà e dalle tecniche portate dai Romani. L’ambiente particolarmente freddo e umido favorì la sopravvivenza di alcune varietà di vite silvestre, di biotipi di Vitis vinifera sativa che superarono l’impatto con l’ambiente padano e di incroci tra queste due tipologie di viti. Dopo la caduta dell’Impero Romano la viticoltura subì una battuta di arresto per poi riprendersi un paio di secoli dopo, come attestano i trattati cinquecenteschi di Marco Bussato (1578) e Bernardino Carroli (1581) in cui viene descritta un’agricoltura orientata in primo luogo alla produzione del pane e del vino.
Dopo la gravissima crisi dell’economia rurale padana tra Seicento e Settecento, il primo quadro dettagliato della viticoltura romagnola è quello tratteggiato nel volume “Pratica Agraria” (1778) dell’abate Giovanni Battarra. La dimensione ridotta dei poderi e la numerosità delle famiglie contadine imponeva una policoltura di sussistenza che sfruttasse al massimo gli spazi disponibili: la “piantata” era la soluzione ideale. Lunghi campi rettangolari erano divisi da strisce di terreno sulle quali erano sistemati filari di viti sostenuti da alberi d’alto fusto come olmi, gelsi, pioppi o alberi da frutto, sotto i quali si coltivavano anche alcuni ortaggi. Solo all’inizio del 900 la produzione iniziò a superare le esigenze della famiglia, la crescita delle città richiese vino in aree anche distanti dalla produzione e nacquero le prime associazioni di produttori di uve per fare vino da commercializzare. Impianti più razionali e specializzati si hanno a partire dagli anni Settanta per il commercio di vino sfuso, mentre da metà anni ’90 inizia il vero cammino qualitativo della vitivinicoltura romagnola.
Un nuovo capitolo di una storia ancora lunga da scrivere e popolato da protagonisti importanti, che scopriremo nelle prossime puntate.
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