Saba

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Denominazioni locali
Sapa nel cesenate e riminese

Diffusione e areale tipico di produzione
Tutta l’Emilia-Romagna. Nel ravennate viene tipicamente impiegata per alcuni dolci tipici, in particolare i Sabadoni.

L’uso di preparare in casa la saba per le necessità famigliari è quasi scomparso e ad oggi sono alcune aziende agrituristiche e piccole agro-industrie che stanno portando avanti questa tradizione del “dolcificante povero”, tipico delle nostre campagne fino all’ultimo Dopoguerra.

RICETTA:

Procurarsi del mosto non ancora fermentato d’uva  oppure raccogliere i piccoli grappoli lasciati in vigna proprio con questo scopo, pressarli e tenere solo il succo eliminando bucce e i vinaccioli (semini) . Metterlo in un paiolo con delle noci con il guscio, che rivoltandosi nel lento bollire aiutano il mosto a non attaccarsi al fondo del recipiente.

La bollitura, deve durare da 6 a 10 ore circa ed in questa fase è necessario effettuare più volte il filtraggio e la schiumatura per togliere tutte impurità. La saba è pronta quando si sarà diminuita di un terzo della sua quantità iniziale. A cottura ultimata, quando avrete ottenuto uno sciroppo denso scuro, lasciate raffreddare prima di imbottigliare e conservare in dispensa.

Caratteristiche del prodotto
Si tratta di una sorta di sciroppo zuccherino ottenuto per concentrazione a fuoco diretto del mosto d’uva. Il prodotto finito presenta colore bruno scuro e una densità tale da mantenere una scorrevole sciropposità, è di sapore dolce e di profumo gradevole ed intenso. La saba veniva impiegata come dolcificante nella preparazione di dolci, per inzuppare pane e polenta, per bagnare i dolci di Natale e di Carnevale, e tipicamente per insaporire fagioli, ceci e castagne lessate. In inverno veniva usata per condire la neve messa in un bicchiere, creando una sorta di sorbetto. In tempi in cui non esistevano le bibite energizzanti, la saba veniva aggiunta all’acqua per trarne una bevanda dissetante e corroborante (è ricca in potassio). È arrivato sino ai giorni nostri l’uso terapeutico per contenere i danni delle ustioni, se somministrata tempestivamente sulla pelle scottata.

Un po’ di storia

“Altronde il miele, la sapa, o il mosto condensato delle uve, ed i sughi d’altri frutti, prima che lo zucchero fosse conosciuto, o almen prima che divenisse molto comune, servivano ad addolcire i cibi e le bevande, non meno che ai bisogni della medicina. Lo zucchero non è divenuto abbondante, né si vende a basso prezzo, se non dappoiché, per un traffico vergognoso ed inumano, a cui non sdegnano di partecipare neppur quelle fra le nazioni che han fama di più colte e di più gentili, degradata una parte della specie umana, e ridotta alla vil condizione dei bruti, s’impiega nei lavori di quella manifattura”. Questo brano, che sembra un attualissimo elogio del commercio equo e solidale, è in realtà tratto da una memoria del prof. Gazzeri, letta all’Accademia dei Georgofili nel marzo del 1824 (AA.VV., 1824); esso sintetizza in modo efficace l’evoluzione della dolcificazione degli alimenti nella nostra storia passata.

La concentrazione del mosto d’uva era pratica nota già ai Greci e ai Latini. Columella, nel suo De re rustica (Columella, 1977) dedica un paragrafo al modo per cuocere il mosto: “Alcuni mettono del mosto in recipienti di piombo e lo cuociono fino a ridurlo di un quarto, altri anche di un terzo; ma è fuor di dubbio che se qualcuno lo facesse ridurre della metà farebbe una migliore e più utile ai vari usi cui è destinata, tanto che con la sapa potrebbe anche condire il mosto ricavato dal frutto di una vigna vecchia, invece di adoperare il vino cotto”.

Nel IV libro delle Georgiche di Virgilio (AA.VV., 1839) alla voce “Defruta” si legge: “Vino cotto. Così Plinio, XIV, 9: ”.

Nel suo Trattato dell’agricoltura, nel Trecento, Pier de’ Crescenzi (de’ Crescenzi, 1805) affronta anche il tema di “quelle cose che dell’uve far si possono”, indicando le modalità invalse a quel tempo per il loro ottenimento. Tra queste cose, ovviamente, viene illustrata anche la saba: “Dell’Uve far si può agresto, passo, defruto, sapa, vino e aceto, de’ quali tutti da dire è, come si fanno e come si conservano, e della natura e virtù che hanno ne’ corpi umani…. Il defruto, coroèno, e sapa si fanno di mosto, perchè defruto è detto dal bollire, quando è forte spessato. ll coroèno quando la terza parte perduta, le due parti rimangono. La sapa quando è tornata la terza parte, la quale migliore fanno le mele cotogne insieme cotte”.

A meta del 1700, Giovanni Capello include il termine “saba” nel suo lessico farmaceutico a testimonianza di come questo prodotto avesse anche un uso terapeutico: “Sapa, o mosto cotto. Fatto suchio dell’uve mature, e dolci si riduca bollendo lentamente in vaso di pietra a spessezza di mele. Alcuni aggiungono alla sapa tre oncie di mele eletto per libra”.

Alla fine del Settecento, il medico fiorentino Giovanni Targioni Tozzetti tiene un paio di lezioni presso la Società dei Georgofili (Targioni Tozzetti G., 1791) di Firenze in cui esamina il problema della difficoltà di conservazione dei vini toscani, e porta ad esempio la tecnica di “dare il cotto” ai vini di Romagna al fine di prolungarne la durata nel tempo: “Se adunque i vini erano per loro natura oligofori, ne facevano in vasi di piombo o di rame, chiamati Cortinae, larghi molto di bocca, quasi come certe caldaie da tintori, bollire col fuoco, e scemare una porzione, cioè o il quarto, o il terzo, o la metà, riducendola quasi a consistenza di sciroppo, che chiamavano Epsema, Defrutum, o Sapa, secondo il grado della cottura, e poi la mescolavano coll’altra porzione del vino, quasi appunto come si costuma oggigiorno nel dare il cotto ai Vini di Romagna, e d’altri Paesi”.

Dalla lettura di questo brano si evince come l’insegnamento dei georgici latini sia giunto, praticamente immutato, fino all’Ottocento.

“Saba” è la tipica denominazione dialettale romagnola, come ci attesta il primo vocabolario Romagnolo-Italiano di Antonio Morri (Morri A., 1840): “Mostocotto, il quale se fa col fuoco, ridotto a’ due terzi dicesi Caroeno, e se ad un solo terzo, Sapa. Se poi è molto spesso, e sodo chiamasi Defritto”.
L’uso della saba per condire la neve messa in un bicchiere, nei lunghi inverni padani (l’ambientazione è nel Ferrarese), viene attestato dal romanzo di Nerino Rossi, “La neve nel bicchiere”, da cui è stato tratto anche un film.

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